L’ ”Emergenza coronavirus” rappresenta ancora oggi l’elemento centrale del dibattito politico, di quello economico, di quello scientifico e, principalmente, di quello sanitario.
Si registra, inoltre, una significativa variazione del quadro generale rispetto a qualche mese fa quando, per l’improvvisa invasione da parte del coronavirus e delle sue tragiche conseguenze, il mondo sembrava inerme rispetto ad una inattesa e pericolosa pandemia, e molti comportamenti erano improntati ad emotività ed improvvisazione.
Sia pure con comprensibile cautela, in questi giorni si comincia a discutere dell’avvio di una “fase 2”, che non attiene soltanto agli aspetti economici e commerciali della nuova quotidianità, ma anche alla rinnovata gestione dell’offerta sanitaria che, dopo una fase caratterizzata da una imprevedibile emergenza, dovrebbe essere ripianificata per renderla rispondente ad una richiesta assistenziale che non è fatta soltanto di COVID 19, ma anche di una serie innumerevole di altre patologie, alcune delle quali croniche ed invalidanti, che non possono passare in secondo piano.
Anche in Sicilia si comincia a respirare un’aria diversa rispetto ai primi giorni dell’emergenza, nei quali era evidente la preoccupazione per eventuali pesanti conseguenze sulla popolazione, sia residente sia di ritorno dalle regioni del Nord.
Se nei giorni passati, per la emanazione dei provvedimenti normativi e sanitari, nonché per la destinazione delle risorse economiche, potevano essere giustificati comportamenti improntati ad estemporaneità ed urgenza, oggi diventa un obbligo affrontare la rimanente parte dell’emergenza con elevata competenza, con comprovata esperienza, con adeguata managerialità e con una visione d’insieme che produca una gestione efficiente, oculata, appropriata, concreta, tempestiva, rispondente alle esigenze di promozione della salute e mai improntata ad emotività ed urgenza.
Se ieri si era costretti a barcollare nel buio dei dati approssimativi e delle azzardate previsioni, oggi possiamo affidarci ad una approfondita conoscenza dei quadri patologici dell’infezione e, principalmente, alla evidenza di inconfutabili dinamiche epidemiologiche, fondamentali per l’adozione di decisioni strategiche ed organizzative.
Il rischio ancora persistente di diffusione del virus che porta da un lato alla doverosa applicazione di rigorose misure di contenimento sociale e dall’altro all’esigenza di assicurare risposte assistenziali adeguate, impone l’adozione di strategie sanitarie fatte di buone pratiche ed alta responsabilità gestionale, rispetto ad eventuali “sperimentazioni” organizzative poco consigliabili in momenti di complicata emergenza come quella che probabilmente durerà ancora per qualche mese.
Nella programmazione degli interventi sanitari contro la COVID 19, bisogna partire, a mio avviso, dalla evidenza clinica della malattia e dalla sua evoluzione, nonché dai diversi trattamenti richiesti per ogni stadio della malattia, distinguendo il ruolo fondamentale dell’assistenza ospedaliera da quella, non meno importante, della medicina territoriale e della continuità assistenziale.
Nella prima fase, quando si sconosceva il virus e nulla si sapeva sui suoi effetti patogenetici, quando l’unica terapia sembrava essere la preghiera, ed ogni paziente positivo sembrava essere inesorabilmente destinato alla rianimazione, poteva risultare condivisibile la scelta prioritaria, se non unica, di creare con immediatezza e senza calcolare costi, nuovi posti di Terapia Intensiva, storicamente carenti su tutto il territorio nazionale.
Nel primo periodo poteva risultare giustificabile la corsa difficile ed affannosa verso nuovi posti di Terapia Intensiva, e la scelta di priorità rispetto ad altre opzioni altrettanto rilevanti nella lotta al contagio, ma questo comportamento, oggi, deve annoverarsi nella storia recente e non può più caratterizzare le scelte future.
Se ieri le decisioni venivano condizionate dalla preoccupazione, dalla paura e da un non meglio precisato pragmatismo, oggi devono essere orientate dalla scienza, dalla razionalità e dalla concretezza.
Da Bergamo a Napoli, da Brescia a Catania, da Tarvisio a Lampedusa è ormai di quotidiano riscontro il fatto che, fra i malati COVID, diminuiscono notevolmente i ricoveri in Terapia Intensiva e che molti pazienti già ricoverati in Rianimazione vengono dimessi.
Se questo è saltato agli occhi degli Amministratori della Lombardia, dove la carenza di posti-letto di Rianimazione ha determinato una immane tragedia, non può essere trascurato dalle nostre Autorità Sanitarie, anche perché fortunatamente la carenza di Terapie Intensive non ha avuto alcuna conseguenza.
Il primo problema da affrontare alla luce della suddetta evidenza è quello relativo alla possibilità di destinare, in Sicilia, rilevanti risorse economiche alla realizzazione di altre Unità di Terapia Intensiva senza un preciso rapporto con le reali esigenze territoriali, e che potrebbero non essere utilizzate in futuro, sia in era COVID che NO-COVID.
A tal proposito si deve tener presente che nella creazione di Unità di Rianimazione non si può obbedire soltanto a valutazioni economiche o demografiche, ma bisogna considerare, nella complessità della materia, anche aspetti relativi alle risorse umane ed alle molteplici esigenze organizzative che ne derivano.
Una Unità Operativa di Terapia Intensiva, infatti, non può essere assimilata ad un qualsivoglia reparto di degenza o ad un qualsiasi servizio ospedaliero, isolata da un contesto molto più complesso ed articolato, perché non può essere separata da tutte le componenti fondamentali di un ospedale plurifunzionale e funziona solo se integrata con gli altri reparti della ragnatela assistenziale.
Una Terapia Intensiva necessita del lavoro coordinato di Rianimatori, Cardiologi, Nefrologi, Internisti, Neurologi, Chirurghi e, nel caso del COVID 19, anche di Infettivologi, oltre che di Infermieri specializzati ed altre qualificate ed esperte figure professionali.
Un Reparto di Rianimazione, infatti, non è fatto soltanto di strumentazione medicale più o meno complessa, ma anche di personale altamente qualificato, di elevata tecnologia e di una collegata rete di collaborazione.
Ormai tutti parlano di Respiratori e di Ventilatori come se si trattasse di elettrodomestici e c’è chi pensa che questi strumenti siano assimilabili ad una lavatrice o ad una lavastoviglie; una volta collegato il tubo dell’acqua e quello dello scarico, pressi il pulsante e la macchina parte.
Per la Rianimazione non è così ! E’ molto più complesso !
Se la lavatrice non è ben manovrata il rischio che si corre è quello di rovinare due mutande e quattro calzini; se non funziona la lavastoviglie rischiano di rimanere sporchi due bicchieri e tre piatti. Se non si sanno ben utilizzare l respiratori si rischia di provocare una tragedia.
A proposito dei posti-letto di Rianimazione da realizzare nel nostro territorio, non può essere ignorato quello che si è verificato a Milano dove, in mezzo a polemiche e scontri di ogni genere, è stato realizzato un mega centro di Rianimazione nell’area della vecchia Fiera, costato più di 21 milioni di Euro.
Originariamente avrebbero dovuto essere realizzati 400 posti, ridotti poi a 300, per realizzarne, alla fine, 208.
Appena due giorni fa l’Assessore alla Salute della regione Lombardia, Gallera, che aveva considerato la realizzazione del megacentro “una scelta storica”, laconicamente dichiarava: “questo ospedale fortunatamente non è servito”.
Erano sati utilizzati solo 12 posti-letto.
Ma se i 21 milioni spesi a Milano per realizzare la Rianimazione “Fiera” sono stati donati da vari benefattori privati, i soldi che dalle parti nostre vengono utilizzati non provengono né da Chiara Ferragni né da Giorgio Armani. Sono soldi dello Stato o della Regione, cioè soldi nostri !
E’ anche per questo motivo che devono essere spesi con oculatezza ed ispirandosi a criteri di accorta managerialità sanitaria.
Motivo per cui mi chiedo e chiedo alle Autorità Sanitarie:
1) cè realmente bisogno dei 10 posti-letto di Terapia Intensiva da allocare presso l’ospedale di Ribera dove, a tale scopo, sono in corso opere murarie ed impiantistiche ?
2) qualora si ritenesse indispensabile l’installazione di questi 10 punti di rianimazione, è stato già individuato il personale specializzato da destinare a questa nuova unità rianimatoria ?
3) quando si uscirà dalla fase emergenziale COVID ci sarà ancora bisogno della suddetta struttura, o potrebbe risultare non più necessaria per le esigenze del territorio ?
Presumo che chi ha responsabilità gestionali si sia già posto le suddette domande e che si sia dato già le adeguate risposte, perché sarebbe grave se da queste parti si verificasse quello che è già avvenuto alla fiera di Milano !
Se nuove Unità Operative devono essere realizzate, ritengo che sia fondamentale pensare, per il Giovanni Paolo II, ad un reparto di Malattie Infettive, tale da rappresentare il centro della gestione specialistica dei pazienti affetti da COVID 19 in questa fase, per diventare, dopo la fase emergenziale, una definitiva offerta assistenziale da mettere a disposizione di due provincie, Agrigento e Trapani, che non sono attualmente dotate di questo reparto, pur in presenza di un notevole rischio infettivologico, indipendente dal coronavirus e legato al numero elevato di soggetti stranieri presenti nel nostro territorio.
L’esigenza, anche economica, di subordinare le decisioni operative alla evoluzione della COVID 19 ed alle dinamiche epidemiologiche, propone ulteriori quesiti e conseguenziali proposte operative.
Ad esempio, non essendoci, ad oggi, alcun ricoverato affetto da COVID 19 presso l’Ospedale di Sciacca e presagendo, a meno che non succeda inaspettatamente una catastrofe, che in futuro non si presenteranno molteplici richieste di ricovero , si ritiene ancora necessario approntare presso il Giovanni Paolo II 75 posti COVID che, oltre ad occupare notevoli spazi, impegnerebbero un numero elevato di operatori sanitari ?
Un’ eventuale riduzione dei posti-letto da destinare ai COVID potrebbe facilitare e rendere più agevole la concretizzazione della ipotesi, da più parti formulata, di allocare il centro COVID in un edificio autonomo, distinto e distante dal monoblocco dei reparti di degenza, realizzando così una netta separazione tra pazienti COVID e pazienti NO COVID.
Inoltre, per quel che riguarda il personale sanitario da destinare ai pazienti COVID, che necessitano di assistenza continua e plurispecialistica, non è ipotizzabile il criterio della pronta disponibilità, poiché è consigliato assegnare personale dedicato in esclusiva ai pazienti COVID e che non svolga contemporaneamente attività in altre unità operative, eventualità quest’ultima che potrebbe aumentare il rischio di diffusione del contagio.
E’ da considerare, infatti, fondamentale il requisito di sicurezza da garantire ai degenti, al personale ed ai soggetti che, pur non essendo ricoverati, accedono ai locali dell’ospedale.
Da un conteggio degli accessi al Pronto Soccorso di Sciacca è facilmente deducibile la rilevante diminuzione della richiesta di assistenza presso l’ospedale, che, verosimilmente è ascrivibile alla giustificata preoccupazione della promiscuità dell’ambiente, e che tiene lontani dall’ospedale anche quei pazienti che, pur necessitando di assistenza ospedaliera, preferiscono rimanere a casa, esponendosi al rischio di ulteriore peggioramento delle proprie condizioni di salute.
L’ospedale di Sciacca, come è stato sostenuto anche da Rappresentanti Istituzionali del territorio, è un nosocomio di riferimento per una vastissima area della nostra provincia, per cui, pur mantenendo il centro COVID, si dovrebbero al più presto riattivare tutte le sue attività specialistiche, in maniera da rispondere alle pressanti e non più trascurabili esigenze di assistenza qualificata.
Ma questo potrà avvenire soltanto se saranno realmente assicurati quei requisiti di sicurezza e di tranquillità derivanti da una netta distinzione tra ambienti COVID ed ambienti NO COVID.
A tal proposito si pone opportunamente il problema di eventuali interventi chirurgici da effettuare su pazienti COVID.
E’ del tutto razionale che eventuali soggetti positivi al coronavirus che necessitano di intervento chirurgico debbano essere ricoverati presso il centro COVID di Sciacca ed in quel nosocomio essere sottoposti al trattamento chirurgico, anche nel rispetto delle indicazioni dell’OMS e del Ministero della Salute che sconsigliano ogni possibilità di contatto tra pazienti COVID e quelli NO COVID.
E per rispettare il contenimento del contagio, la soluzione non può essere quella prevista da una recente disposizione dirigenziale, che prevede il trasferimento dei suddetti pazienti presso l’ospedale di Ribera; sia perché l’ospedale di Ribera non è COVID abilitato, sia perché il rischio di contagio sarebbe particolarmente elevato per i pazienti e per il personale, non essendo facilmente realizzabile un adeguato livello di protezione.
Una ipotesi praticabile già subito e almeno per il periodo dell’emergenza, sarebbe quella di utilizzare le sale operatorie dell’ospedale di Ribera per interventi chirurgici non effettuabili presso l’ospedale di Sciacca e che non richiedono assistenza rianimatoria, come interventi di cataratta o altra piccola chirurgia dell’occhio, interventi programmati di pertinenza ortopedica, interventi di area otorinolaringoiatrica o urologica, che potrebbero agevolmente essere effettuati presso l’ospedale di Ribera.
Ciò potrebbe permettere che soggetti NO COVID di pertinenza chirurgica evitino ogni eventuale contatto con soggetti COVID, ma anche l’ aumento della produttività e lo snellimento di liste d’attesa che, se non si attiva immediatamente una regolare attività chirurgica. rischiano di allungarsi a dismisura.
Una strategia per una efficiente proposta assistenziale non può considerare soltanto l’area di degenza, ma deve tenere conto anche delle esigenze collegate all’attività ambulatoriale e di day hospital, che necessitano di continuità e di sicurezza.
Non possono e non devono subire ulteriori rallentamenti le attività di controllo periodico e di qualificata assistenza effettuate nelle varie branche specialistiche, in particolare in oncologia, destinate a pazienti che non necessitano di ricovero e che provengono da una vasta area territoriale.
Le ipotesi menzionate non necessitano di ulteriori strutture o di nuovo personale, né tantomeno di risorse economiche aggiuntive, e potrebbero determinare sostanziali economie, oltre a concreti ed immediati benefici per la sicurezza, l’efficienza, la produttività e la qualità dell’offerta di salute.
Nenè Mangiacavallo