sta scandagliando tutti i messaggi privati che scambiava Francesco Averna, ennesima identità farlocca di Matteo Messina Denaro che il boss arrestato 15 mesi fa, morto di tumore lo scorso 25 settembre, utilizzava sui social network. Perfino lui non ha resistito al fascino della vita virtuale. Lo hanno appurato gli inquirenti, che sono risaliti ad un profilo Facebook e ad un altro Instagram. Foto profilo per entrambe le piattaforme: quella di un cagnolino. Informazioni biografiche sommarie su Facebook lo indicano tuttora come un sedicente medico chirurgo laureato all'università Bocconi di Milano e single. E se su Facebook il fantomatico Francesco Averna aveva solo cinque amici social, abitanti tra Campobello di Mazara e Partanna, più nutrita (63 profili) era la comunità che lo seguiva su Instagram, mentre lui di profili ne seguiva 447.
È stato il quotidiano "La Repubblica" a pubblicare un reportage su una delle numerose scoperte fatte dagli investigatori del Ros e della procura della Repubblica. Il procuratore capo Maurizio De Lucia, l'aggiunto Paolo Guido e i sostituti Gianluca De Leo e Pierangelo Padova, grazie alle ricostruzioni dei Ros e dei tecnici informatici dei carabinieri hanno scoperto che il capomafia rimasto latitante per un trentennio aveva scelto un altro alias. La magistratura prova a capire se questi profili abbiano rappresentato chiavi d'accesso per comunicare col boss durante la sua latitanza, se tra le tante complicità già accertate ce ne siano state anche all'interno dei social network.
E pensare che nel primo interrogatorio poche ore dopo la cattura ai magistrati Messina Denaro disse che uno nella sua posizione non dovesse avere nemmeno il cellulare, e che d'altronde quelli della sua generazione sapevano come si potesse vivere anche senza. Eppure lui di cellulari ne aveva due. Chiarì che ne aveva avuto necessità dopo avere scoperto del tumore al colon, perché in clinica gli chiedevano regolarmente un numero telefonico in caso fossero necessarie comunicazioni a lui rivolte su esami e stato clinico.
Francesco Averna è il nome con il quale Messina Denaro si presentò al tecnico che era stato chiamato da Andrea Bonafede per aggiustargli la lavastoviglie. "Mio cugino ha bisogno di una riparazione", gli disse colui che prestò la sua identità al boss e che per questo è già stato condannato a 6 anni e 8 mesi per favoreggiamento. Pena che per i magistrati palermitani è troppo lieve, ragione per la quale hanno già presentato ricorso in corte d'appello. Non solo i profili social tra i nuovi documenti che la Dda ha depositato. I Ros hanno ricostruito i movimenti del superboss, tra Campobello di Mazara, dove è stato accertato che viveva e si relazionava indisturbato, e la città di Palermo. Nel capoluogo si recava regolarmente con Andrea Bonafede, frequentava negozi e il centro storico, andava a fare la spesa, andava dal tabaccaio. Cose normali di un uomo normale. Fino alle visite alla Maddalena per curare il suo tumore. La sensazione prevalente dei magistrati è che le connivenze e le complicità di Messina Denaro siano più di quelle che sono state accertate. Non si può rimanere latitanti per trent'anni senza tutti gli aiuti di cui Messina Denaro ha goduto. E non è che siccome lui è morto allora la questione può considerarsi conclusa.
Ieri intanto ad 87 anni è morto Vincenzo Agostino. Un uomo che ha dedicato tutta la sua vita a invocare verità e giustizia per la morte del figlio Antonino e della moglie Ida, assassinati nel 1989. Antonino era un agente di polizia, componente di un gruppo che collaborava con i servizi segreti e che avrebbe scoperto alcuni presunti depistaggi operati all'interno dello Stato e che per questo fu ucciso. La moglie Ida era incinta. Il padre decise che non avrebbe tagliato la barba fino a quando lo Stato non avesse sancito la verità su quanto accaduto al figlio e alla nuora. Purtroppo se n'è andato senza potersi radere. La sua disperazione ne connotò un impegno civile che va onorato e portato avanti.