Processo che si celebra dopo il ricorso presentato dalla procura di Palermo contro l'assoluzione in primo grado e con il rito abbreviato dell'ex ministro. Rito che lo stesso imputato aveva richiesto nell'ambito del procedimento scaturito dall'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia che lo aveva visto finire ancora una volta sotto indagine. L'udienza di ieri, che precede la requisitoria della procura generale in programma il prossimo 25 febbraio, ha visto messi a confronto, su richiesta della stessa pubblica accusa, i collaboratori di giustizia Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca. Entrambi accusatori di Mannino, entrambi hanno confermato che Cosa nostra aveva deciso di eliminare l'ex ministro su espresso mandato di Totò Riina, che voleva punirlo per non avere rispettato i patti con la mafia. Eppure qualcosa non torna. In particolare non tornano le date.
La Barbera ha dichiarato di avere ricevuto incarico di uccidere Mannino nel momento in cui Leoluca Bagarella o Salvatore Biondino (questo dettaglio il pentito non lo ricordava) gli ordinò di portare il 'vino' in via Ventura, dove si trovav la segreteria politica di Mannino. “Portare il vino”, nel linguaggio mafioso, significa cominciare ad organizzare l'attentato con l'idea finale di predisporre un'autobomba. Ordine che il pentito ha detto di avere ricevuto in un periodo imprecisato, comunque sia alla fine dell'estate del 1992, ossia dopo le stragi di Capaci e Via D'Amelio, quelle che avevano colpito gli obiettivi più eccellenti nell'escalation degli omicidi mafiosi: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ordine però poi venuto meno.
Diversa la tempistica raccontata da Brusca, che, invece, ha dichiarato di avere ricevuto l'incarico di ammazzare Calogero Mannino subito dopo la strage di Capaci, dunque prima dell'estate e di via D'Amelio, e di essersi adoperato sin da subito per studiarne le abitudini, ma di essersi poi fermato a seguito di specifico contrordine che Riina gli fece avere tramite Salvatore Biondino, che attraverso Antonino Gioè gli fece sapere che ci avrebbe pensato lui. Lo stesso Brusca, in una precedente udienza, aveva fatto sapere di avere riscontrato, nelle motivazioni della sentenza del processo ordinario, delle imprecisioni nelle dichiarazioni di La Barbera, confermando che il progetto di assassinio era da inquadrarsi nel periodo tra le due stragi, e non dopo via D'Amelio.
In primo grado, nella sentenza del novembre 2015, Mannino è stato assolto dal gup di Palermo Marina Petruzzella per non aver commesso il fatto. L'ex ministro democristiano si è sempre difeso negando ogni coinvolgimento nelle vicende che gli sono state contestate. Ma per il pm Nino Di Matteo la trattativa tra apparati dello Stato e i boss mafiosi fu agevolata proprio da Mannino e proprio allo scopo di avere salva la vita.
In particolare, la procura ritiene che dopo una serie di segnali intimidatori, l'ex ministro temeva per la sua vita, e che grazie alle sue relazioni con l'ex capo del Ros Antonio Subranni, processato e condannato nel processo con il rito ordinario, avrebbe fatto partire il dialogo inconfessabile. Le istituzioni, in cambio di un allentamento della politica di contrasto ai clan, avrebbero ottenuto la cessazione della stagione stragista. Impostazione, quella che ha confermato la sostanziale esistenza della trattativa tra Stato e mafia, confermata dalla sentenza di primo grado al processo ordinario, quello che ha visto già condannati Massimo Ciancimino e Marcello Dell'Utri ma anche uomini dello Stato come il prefetto Mario Mori. In attesa delle prossime sentenze, gli attuali dispositivi dicono che la trattativa ci fu ma che a promuoverla non fu Mannino.