Onestamente è difficile trovarlo. Non c'erano grossi dubbi, nel caso in cui il TAR gli avesse dato torto, che l'ex sindaco decidesse comunque di andare avanti con un altro ricorso al CGA. Ad indicare questa direzione sono soprattutto le cose finora rimaste in sospeso. A partire da quelle schede votate il 12 giugno 2022 che, secondo il diretto interessato, pur contenendo presunte preferenze a suo favore, non sono state prese in considerazione perché la loro fattispecie non era stata espressamente indicata nel ricorso originario. Da qui, e dall'obiettivo di ampliare il numero di sezioni elettorali da ricontrollare, l'annuncio di sottoporre il caso al prossimo grado di giudizio. Un fatto formale, dunque, all'interno di una questione apparentemente essenzialmente di diritto.
Fatto sta che, a 3 mesi esatti dal primo anniversario dell'amministrazione Termine, e malgrado il ricorso al TAR sia un capitolo chiuso, la questione rimane ancora aperta. E lo rimarrà ancora per diverso tempo, forse per gran parte del 2023. Ma, diciamoci la verità: in questa vicenda il ruolo del diritto si scontra frontalmente con quello della politica. Non è stato corretto, e continuerà a non esserlo (almeno in attesa della prossima sentenza), considerare Fabio Termine alla stregua di un sindaco sub iudice. Soprattutto alla luce della sua netta vittoria al ballottaggio. Si può inoltre dibattere sull'assurdità di una norma che, nei comuni senza maggioritario, permette una vittoria al primo turno a chi raggiunga il 40%. Meglio sorvolare, infine, sull'assurdità di un premio di maggioranza che trasforma l'amministrazione di una città in una sorta di partita a Risiko. Tanto varrebbe, a questo punto, riformare la legge nella direzione delle elezioni regionali, quelle che indicano subito un vincitore tra i candidati alla presidenza, senza bisogno di ballottaggi.
Dopodiché è chiaro che il sindaco Termine goda della legittimazione necessaria ad amministrare. Al tempo stesso non c'è dubbio che la vicenda del ricorso elettorale lo abbia in qualche misura condizionato: nelle scelte, nell'atteggiamento politico, nella comunicazione e nella necessità di misurare le mosse, a partire da quelle previste nel confronto con un consiglio comunale che, al di là delle considerazioni retoriche sul bene supremo della città, lo attende puntualmente al varco. Ma non è trascurabile, nel rispetto delle prerogative di ciascuno (compresa quella di Ignazio Messina di provare a far valere i suoi diritti), il sentiment dell'opinione pubblica. E non è questione questa che possa limitarsi alle tifoserie politiche, che proprio in quanto tifoserie, puntualmente debordano. Il risultato del ballottaggio ha dato un'indicazione chiara, e in questa fase, pur tra tante difficoltà, sembra che la luna di miele tra la città e Fabio Termine non si sia ancora esaurita.
Il punto è ovviamente che, per Messina e i suoi alleati quel ballottaggio non avrebbe dovuto esserci. Per la questione di diritto deciderà il CGA. Per la questione politica, piuttosto paradossalmente, Messina sembra avere affidato ai ricorsi il rimedio ad alcune decisioni politiche su cui, d'altronde, alcuni dei suoi stessi alleati della prima ora (a partire da Filippo Bellanca) avevano manifestato qualche dubbio, avendo imbarcato nel suo progetto talmente tante di quelle liste che gli avrebbero dovuto permettere di vincerla sul velluto. Ma si sa che in politica 2+2 non ha mai fatto quattro. E al primo turno la coalizione ha preso oltre il 4% in più del suo risultato ufficiale, ossia l'ormai celeberrimo 39,9%. Fatto questo che ha stupito lo stesso Alfredo Ambrosetti, che non lo ha nascosto rispondendo alle domande di Maria Genuardi nel corso dell'ultima puntata de L'Ospite. Eppure Messina ha continuato, perfino tra il primo e il secondo turno, con quell'accordo con Fratelli d'Italia che si è rivelato utile in definitiva solo a bloccare il premio di maggioranza e a raggiungere, evidentemente, la presidenza del consiglio comunale.