l'operaio di 59 anni di Cattolica Eraclea accusato dell’omicidio del marmista Giuseppe Miceli, ucciso il 6 dicembre 2015 all’interno del suo laboratorio in via Crispi, ed ha chiesto ai giudici della Suprema Corte di annullare l’assoluzione di Sciortino e di disporre un nuovo processo a suo carico. Alla richiesta si è associato anche l’avvocato Antonino Gaziano, legale dei familiari della vittima, che adesso chiede un nuovo giudizio per Sciortino al fine del risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dai prossimi congiunti di Miceli. Gaetano Sciortino, difeso dagli avvocati Santo Lucia e Giovanna Morello, era stato condannato in primo grado a 24 anni di carcere dalla Corte di Assise di Agrigento. La procura di Agrigento aveva chiesto nei suoi confronti l'ergastolo. Nel giudizio di secondo grado, la Corte di Assise di Appello di Palermo, presieduta dal giudice Angelo Pellino, lo scorso giugno ha ribaltato completamente il verdetto disponendo l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” nei confronti dell’imputato. I giudici di Appello smontarono l’intero impianto accusatorio, escludendo anche la rapina come possibile movente. Adesso la Procura generale ha impugnato la sentenza di assoluzione chiedendo alla Corte di Cassazione di annullare l’assoluzione e disporre un nuovo processo per l’operaio. Diversi i motivi alla base del ricorso presentato in Cassazione dall’avvocato Antonino Gaziano, legale di parte civile: tra questi, l’omissione della valutazione di prove testimoniali e documentali proprio su argomenti decisivi ai fini della riconducibilità dell’omicidio all’imputato; una errata valutazione sull’alibi fornito dalla moglie dell’imputato, ritenuto credibile dal tribunale e falso dagli inquirenti. La vicenda risale alla fine del 2015 quando il cadavere del marmista fu rinvenuto all’interno del suo laboratorio. Un omicidio efferato, con l'artigiano di Cattolica Eraclea ucciso con alcuni attrezzi del suo stesso laboratorio ed un’acquasantiera in marmo. Gaetano Sciortino venne arrestato dai carabinieri due anno dopo il delitto. Ad “incastrarlo” – secondo l’impianto accusatorio poi sconfessato in Appello – ci sarebbero stati alcuni elementi: il ritrovamento di una scarpa in un’area rurale la cui impronta sarebbe compatibile con quella repertata dai RIS sulla scena del crimine; il presunto pedinamento del giorno precedente e la distruzione di alcune punte da trapano da parte dei figli dell’imputato (intercettati) che appartenevano alla vittima. Il movente tuttavia non è mai stato ben chiaro.