Cinquantasei anni fa la tragedia del terremoto che sconvolse la Valle del Belice.
Un evento che fu uno spartiacque della storia, perfino di quella linguistica, quando i giornalisti accorsi qui da tutta Italia per raccontare quel dramma spostarono involontariamente l'accento da Belìce a Bèlice. La difficoltà, che ancora resiste, a ripristinare il termine corretto, è una specie di metafora di quel disastro, di quello delle ore del dramma nonché degli anni successivi. Tutto appartenente ad un processo di ricostruzione, fisica e morale, che ancora oggi, dopo oltre mezzo secolo, non è ancora del tutto esaurito. L'Italia era impreparata a quello che era accaduto. I soccorsi furono tardivi, la stessa entità del danno sarebbe stata acquisita diverse ore dopo. Sarebbero trascorsi ancora diversi anni prima che si costituisse un dipartimento organizzato di Protezione civile nel nostro Paese. Ma in quel gennaio del 1968 il tributo di sangue pagato fu altissimo: centinaia di vittime innocenti, migliaia di feriti, centomila senzatetto, 12 mila dei quali emigrarono verso il nord Italia. Simbolo drammatico di una tendenza che purtroppo continua ancora oggi.
La prima forte scossa si avvertì alle ore 13:28 del 14 gennaio, con gravi danni a Montevago, Gibellina, Salaparuta e Poggioreale; una seconda scossa alle 14:15. Nelle stesse località ci fu un ulteriore sisma molto forte, che fu sentito fino a Palermo, Trapani e Sciacca. Due ore e mezza più tardi, alle 16:48, la terza scossa, che causò danni gravi a Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa e Vita. Nella notte, alle ore 2:33 del 15 gennaio, un terremoto molto violento causò gravissimi danni e si sentì fino a Pantelleria. Ma la scossa più forte si verificò poco dopo, alle ore 3:01, che causò gli effetti più devastanti. A questa seguirono altri 16 movimenti tellurici, quelli di assestamento, come si dice.
La narrazione attorno al terremoto del Belice ha raccontato tante storie private e pubbliche, piccole e grandi. Il mondo cambiò quel giorno, arrivarono le baracche, la ricostruzione, gli aiuti attesi e qualche inevitabile speculazione. Quattordici i centri che furono colpiti, alcuni comuni completamente distrutti: l'agrigentina Montevago, le trapanesi Poggioreale, Salaparuta e Gibellina. Luoghi, questi ultimi, dove la rinascita è avvenuta attraverso la cultura. Ludovico Corrao trasformò una tragedia in rigoglio artistico, sopra la vecchia Gibellina, completamente cancellata dal sisma, sarebbe nato il Cretto di Burri. Il resto è storia: dalle Orestiadi al Museo della Memoria di Santa Margherita, dove il dramma viene raccontato, ma dal dramma è rifiorita la cultura, attorno alla figura storica straordinaria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Oggi è il doveroso momento del ricordo. E sono numerose le iniziative e le commemorazioni, attraverso momenti laici e celebrazioni eucaristiche, in programma nei vari comuni in ricordo delle vittime. E sono trascorsi 6 anni dalla visita a Partanna del presidente Mattarella, il rappresentante dell'istituzione più alta nella quale tutti gli italiani si riconoscono. Lui, siciliano come noi, sa meglio di chiunque altri cosa abbia significato quella tragedia e cosa significhino tutt'oggi i pregiudizi anche politici che attorno al tema della ricostruzione sono proliferati nel corso del tempo. Qualcosa non ha funzionato, il Belice non è stata una priorità nel Paese. Sbagliato però indugiare nel vittimismo. Le responsabilità della nostra stessa gente ci sono state. Ma è vero anche che oggi c'è anche tanta voglia di futuro. Anche se i nostri borghi, purtroppo, continuano a svuotarsi perché manca il lavoro. E dal 1968 ad oggi, da questo punto di vista purtroppo nulla è cambiato.