fatto che il sistema non funziona. Lo ha messo nero su bianco la Commissione Regionale Antimafia, presieduta dall'onorevole Claudio Fava, che ha redatto un nuovo report per quanto riguarda la gestione degli immobili e delle aziende confiscate alla criminalità organizzata. C’era qualcuno che voleva far chiudere la Calcestruzzi Belice, magari per rilevare l'azienda a prezzi irrisori dopo la svalutazione dell'impresa in seguito alla confisca, ed accaparrarsi così i suoi appalti e le sue cave? E' questo l'inquietante interrogativo riportato nella relazione. Come si ricorderà, la vicenda dell'impianto di Montevago è strettamente collegata all'operazione antimafia “Scacco Matto”, il cui processo, dopo due annullamenti in Cassazione, è ancora in corso. La Commissione ripercorre cronologicamente la questione della Calcestruzzi Belice, dal suo sequestro alla sua confisca, fino al fallimento decretato nel 2016 dal Tribunale di Sciacca per un debito di 27300 euro con l'ENI. Spiccioli per un colosso di quelle dimensioni. Poi la mobilitazione dei sindacati e degli operai, il pronunciamento della Corte di Appello che ha annullato il decreto di fallimento, infine amministratori e consulenti che lamentavano il mancato pagamento di somme per circa mezzo milione di euro. "Una lunga storia dolente - scrive la Commissione - ancora non conclusa, sulla quale pesa soprattutto un dubbio: questa azienda ha subito, solo per una congiuntura negativa, l’accanirsi di inerzie, svogliatezze ed eccessi sul piano istituzionale e giudiziario oppure dietro questa somma di fatti c’era un disegno concreto, ovvero la volontà di sbarazzarsi della Calcestruzzi Belice perché qualcuno potesse accaparrarsi i loro appalti e le loro cave?". Una domanda non retorica. Tra le audizioni, si afferma: “Chi c’era dietro non lo so, ma se la Calcestruzzi Belice si è salvata, è soltanto perché i lavoratori hanno occupato l’azienda e non hanno fatto entrare più nessuno".
Nel report, poi, si riportano i numeri. Sono 5644 gli immobili confiscati alla mafia, di cui 441 in provincia di Agrigento. Più del 50% di questi beni, ancora, non vengono riutilizzati dallo Stato e, nel peggiore dei casi, tornano nelle mani dei mafiosi attraverso prestanome. Il Presidente Claudio Fava parla di “gap preoccupante, gestione troppo blanda e di sistema che non funziona a causa della troppa farraginosità e della troppa burocrazia”. Le aziende confiscate in Sicilia sono, invece, 780, di cui 84 in provincia di Agrigento. La maggior parte del settore edile e costruzioni. E anche in questo caso il sistema statale vacilla terribilmente tanto che la Commissione parla di “altissimo tasso di mortalità delle aziende confiscate e la perdita di centinaia di posti di lavoro”. In Sicilia su 780 aziende in gestione, solo 39 sono attive. Su 459 assegnate, solamente 11 si sono salvate dalla liquidazione.
“In questi anni – si legge - l’applicazione della importante legge Rognoni-La Torre ha mostrato significative e preoccupanti battute d’arresto su tutto il territorio nazionale. Alla lungimiranza della norma, s’e’ affiancata una prassi stanca e poco felice che ha progressivamente svuotato lo spirito profondo e positivo dell’intuizione legislativa”.