di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio nell'ambito dell'inchiesta Xidy. Tra questi vi sono anche due pezzi da 90 della mafia provinciale e regionale. Si tratta del superlatitante Matteo Messina Denaro e dell'ex capomafia agrigentino Giuseppe Falsone, tuttora ristretto al 41 bis. Come si ricorderà, l’inchiesta, coordinata dal pm Claudio Camilleri, nasce dall’operazione che, lo scorso febbraio, portò all’arresto di boss e gregari mafiosi del trapanese e dell’agrigentino. Tra gli indagati anche il “postino” del boss Bernardo Provenzano, Simone Castello.
L’indagine, a suo tempo, ha coinvolto pure l’imprenditore Giancarlo Buggea e la sua compagna, l'avvocato Angela Porcello che, a seguito dell’inchiesta, è stata cancellata dall’Ordine. Le accuse vanno dall’associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzato alle estorsioni, sino alla pianificazione di due omicidi che non si verificarono per l’intervento provvidenziale delle forze dell’ordine. Gli investigatori, coordinati dalla DDA, avrebbero accertato tra l’altro una sorta di alleanza tra mafia e stidda, che si sarebbero spartiti gli affari sul territorio. Almeno per due anni, secondo gli inquirenti, all'interno dell’ufficio della penalista Porcello, si sarebbero tenuti summit tra i vertici delle cosche agrigentine. Rassicurati dalla presenza dell'avvocato, i presunti capi dei mandamenti di Canicattì, Ravanusa, Favara e Licata, Simone Castello e Antonio Gallea, ritenuto il nuovo capo della Stidda, nonché killer del giudice beato Rosario Livatino, a cui i magistrati avevano concesso la semilibertà, si sono ritrovati nello studio legale per discutere di affari e vicende illecite legate a Cosa nostra. Ore ed ore di intercettazioni e pedinamenti che avrebbero permesso agli inquirenti di far luce sugli assetti dei clan e sulle loro dinamiche interne. Difensore del boss ergastolano Giuseppe Falsone, Angela Porcello si era fatta nominare legale di fiducia anche di altri due boss al 41 bis, il trapanese Pietro Virga e il gelese Alessandro Emmanuello, riuscendo a fare da tramite tra i tre, tutti detenuti dentro il carcere di Novara. Dall’indagine, a quanto pare, è emerso anche che un agente di polizia penitenziaria, durante un colloquio telefonico tra Falsone e Porcello, avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell’incontro con il boss che sarebbe, inoltre, riuscito a inviare messaggi all’esterno.