gli agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina. Dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino era ben consapevole del destino che lo attendeva e di avere poco tempo a disposizione. Certo, probabilmente, non poteva immaginare che sarebbero trascorsi soltanto 57 giorni tra una Strage e l'altra. I mandanti ebbero fretta, probabilmente per il timore che Borsellino potesse capire chi aveva ordito la strage di Capaci e denunciare i fatti. «Mi ucciderà materialmente la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere.
La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno». Questa la confidenza di Borsellino alla moglie Agnese prima di morire, una confidenza che oggi sembra trovare riscontro nelle sentenze dei giudici di Caltanissetta che hanno descritto la strage di via D'Amelio come il «più grande depistaggio della storia d’Italia». In via d’Amelio c’era sin da subito l’ombra di una «partecipazione morale e materiale di altri soggetti diversi da Cosa nostra». Ed è risaputo che c’erano anche altri «gruppi di potere interessati all’eliminazione» del magistrato.
I giudici di Caltanissetta parlano di «verità nascosta o meglio non completamente disvelata». A cosa servivano reticenze, bugie e depistaggi? La finalità principale del depistaggio, sostiene nella memoria di appello la Procura di Caltanissetta, era quella di «occultare le responsabilità esterne» a Cosa nostra. Restano in piedi, insomma, ancora tanti dubbi e domande senza risposta.