Dell'altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale. Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di sé solo l'immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual.
E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d'oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome insieme a quello con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi "'U siccu": testa dell'acqua, cioé fonte inesauribile di un fiume sotterraneo. Adesso è arrivata anche per Messina Denaro la "livella" della morte. Le indagini sono sono all'inizio. Bisogna scoprire chi sia il suo successore, quello di una mafia che comunque è cambiata. Uccide meno, ma forse fa molti più affari di prima.
il boss Matteo Messina Denaro, l'ultimo stragista di Cosa Nostra arrestato a gennaio dopo 30 anni di latitanza.
Il capomafia, 62 anni, soffriva di una grave forma di tumore al colon che gli era stata diagnosticata mentre era ancora ricercato, a fine 2020. Messina Denaro è morto poco prima delle 2. Il corpo del mafioso si troverebbe ora in uno dei sotterranei dell'obitorio dell'ospedale aquilano che dista non più di cento metri dalla camera-cella nella quale era ricoverato dallo scorso 8 agosto. Fuori dall'obitorio qualche telecamera, pochi fotografi e pochi giornalisti, ma una presenza compatta di tutte le forze dell'ordine. Non ci sono curiosi, ma solo addetti ai lavori a presidiare l'ingresso dell'obitorio. Nelle prossime ore sarà possibile capire la destinazione della salma che è a disposizione dell'autorità giudiziaria di Palermo.
"Sono qui fermo in coda sull'autostrada per colpa della commemorazione di sta minchia". Così il 23 maggio di un anno fa Matteo Messina Denaro si esprimeva, in un vocale di whatsapp inviato in un gruppo di amici e pazienti come lui della clinica "La Maddalena" mentre si trovava sull'A29 Palermo-Mazara del Vallo. Nel tratto fatto saltare in aria lo stesso giorno di 30 anni prima, e di cui (secondo le sentenze giudiziarie) anche lui era tra i mandanti, erano morti il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Può racchiudersi in questo vocale la cifra umana di Matteo Messina Denaro, mafioso e figlio di mafioso, il protagonista da uccel di bosco della fase più drammatica dell'attacco di Cosa nostra nel cuore dello Stato. Gli anni dello stragismo, dei grandi attentati, quelli contro i magistrati simbolo della lotta contro la mafia (anche in via D'Amelio è stata riconosciuta la sua mano di mandante), ma anche quelli degli attacchi ai monumenti nazionali (Roma, Firenze, Milano, il mancato attentato all'esterno dello stadio Olimpico). Il tutto con, al centro, quell'idea di trattativa con lo Stato, dopo le rivelazioni di Massimo Ciancimino, che però le sentenze in questo caso non sono riuscite a dimostrare. La morte del boss è la rappresentazione di come, dopo tre decenni di latitanza, ultracoperta da fiancheggiatori ma anche da chi, pur sapendolo presente in paese non ha fatto niente per farlo sapere agli investigatori, morendo Messina Denaro sia riuscito a farsi ancora una volta beffe (in modo estremo) alla giustizia italiana.
Il tumore al colon ne ha reso sicuramente più vulnerabile la latitanza. Da questo a togliere il merito del lavoro fatto ai carabinieri del Ros e ai magistrati della procura della Repubblica di Palermo ce ne passa. Dubitare dell'azione svolta vuol dire generalizzare, e mettere nello stesso calderone i veri servitori dello Stato e quelli che erano in combutta con la mafia. L'arresto di Messina Denaro, lo scorso 16 gennaio, è stata la fine di un'era. Ma, quello finito nel carcere di massima sicurezza dell'Aquila, era un boss fragile, sempre arrogante e aggressivo, ma comunque senza più difese. Piuttosto, quello che è venuto fuori nel corso di questi mesi, è stata la straordinaria rete di collusione e di protezione che Messina Denaro è riuscito ad avere attorno a sé. Sicuramente incutendo timore e attraverso minacce, non necessariamente esplicite, nei confronti di chi non si fosse adeguato alle sue necessità. Tutto questo ha rivelato come la mafia, e la cultura mafiosa, ha attecchito ancora una volta in questa Sicilia dove però non ci si può rassegnare.
Il mafioso Messina Denaro, nato a Castelvetrano, diresse la mafia siciliana come i vecchi boss. Era lui a comandare, più o meno indirettamente, anche l'organizzazione mafiosa che fa riferimento al territorio compreso tra Sambuca di Sicilia, Sciacca e Ribera. Il suo sodale più importante fu Leo Sutera, detto 'u professuri, l'insegnante sambucese di educazione fisica a cui permise di dettare legge e dare ordini, intervenendo personalmente su appalti e lotte di potere. La mano di Messina Denaro sugli affari della mafia saccense fu certificata dai giudici di Caltanissetta nelle motivazioni delle condanne del processo "Scacco Matto". Per i magistrati fu determinante il ruolo dell’ex latitante di Castelvetrano sin dall'inchiesta "Avana", dei primi anni Novanta, quella che decapitò la famiglia mafiosa allora nelle mani di Salvatore Di Gangi e dei suoi sodali. Un'inchiesta che, secondo la corte d'assise nissena, dava anche l’esatta misura del potere e del prestigio di Messina .
L'ultima "primula rossa" di Cosa Nostra si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent'anni fa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l'immagine giovanile del boss, il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. È così che è stato demolito il mito di un padrino che gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte. Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l'hanno portata a separare la propria vita dall'ombra pesante di un padre che forse non ha mai visto. Ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia.